Francesco Romagnoli e quella sua contagiosa gioia nel dare

Basta aprire il cuore”, sono le parole con cui ci ha congedato qualche giorno fa Francesco Romagnoli prima di salire sul volo per l’Etiopia diretto al villaggio dei bambini che ha costruito circa vent’anni fa, in un’incredibile avventura fatta di solidarietà, altruismo, comprensione e gioia che ha raccontato nel libro “Babaje. Il richiamo dei bambini invisibili”. La sua storia è quella di un ragazzo romano degli anni Settanta che in cerca di se stesso aspettava il segno che gli facesse trovare la propria strada. Nel 2000, dopo una notte tormentata in cui sentiva pianti di bambini senza distinguere da dove arrivassero, ha deciso di intraprendere un viaggio per Adwa, nella regione del Tigray, la più settentrionale delle dieci regioni dell’Etiopia. Lì ha costruito a poco a poco “James non morirà Children’s Village” che da allora è la casa di tanti orfani. Grazie alla forza di tanti piccoli gesti d’amore, a partire dalla fondazione portata avanti con abnegazione dalla sua famiglia, l’accoglienza quotidiana verso l’altro lì avviene con infinita dedizione e sincero ascolto. A piccoli passi Francesco Romagnoli ha regalato e regala il sorriso a tantissimi, anche solo a chi ha letto il suo libro, perché apre gli occhi sul vero senso della vita. Tra i testimoni di questo suo speciale modo di tendere la mano, ci sono i suoi figli Matilde di 11 anni e Michele di 15, che hanno vissuto al villaggio rispettivamente fino a tre e a sei anni, continuando a tornarci spesso tanto da conoscere tutti i bambini che come loro chiamano Francesco “Babaje”, cioè “papà”.

Francesco, cosa ti ha portato in Africa la prima volta?

Ero alla ricerca di un qualcosa che mi mancava. Sapevo che fare qualcosa per gli altri mi avrebbe aiutato a capire che cosa mi mancasse e, forse, mi mancava proprio il dedicare la vita a qualcosa di importante e la voglia di fare qualcosa di buono”.

La scintilla che ti ha illuminato per mettere su il villaggio dei bambini?

La bambina che è nella copertina del libro, Melat, che è stata la prima bambina che ho preso con me, quando ancora non c’era niente, né il villaggio, né l’idea del villaggio. Lei è stata la scintilla che mi ha fatto capire quello che volevo fare, quello di cui c’era bisogno. Ho detto: come lei ce ne saranno tante, quindi facciamo qualcosa per loro”.

È diventata ormai una donna Melat. Cosa fa? Dove vive?

Melat lavora nel villaggio in questo momento, perché tutte le scuole e le università sono chiuse da tre anni per la guerra tra Etiopia ed Eritrea. Adesso si intravvede qualche spiraglio, ma in Tigray ancora non ha riaperto niente. Sembra che le scuole riapriranno a settembre. In questi ultimi tre anni, però, i ragazzi non hanno avuto più la possibilità di studiare, di fare niente; quindi, Melat che stava ultimando gli studi, perché faceva l’università, ha dovuto interrompere e adesso lavora da noi nel villaggio”.

Nel libro racconti di tante bellissime storie, tra cui quella della “principessa ladruncola” che al mercato conquista la tua attenzione fino a diventare amici, dopo che lei aveva tentato di sottrarti i soldi. Cosa fa lei adesso?

Hadera, che è la principessa ladruncola, si è spostata. Lei non era un’orfana del villaggio, perché aveva la mamma e il fratellino. In questo momento lei vive a Macallè, che è stata meno toccata dalla guerra, perché è la capitale del Tigray, però anche lì sono senza scuola e senza università e, quindi, tutti in attesa che riprenda un po’ la vita normale”.

In questi anni lì hanno sofferto, oltre la guerra, anche il Covid?

Il Covid li ha toccati pochissimo. Io pensavo sarebbe successo chissacché invece devo dire che è passato in maniera molto leggera”.

L’ultima guerra ha cancellato l’ospedale, la strada e soprattutto il popolo di Maga Uma che hai conosciuto inseguendo il sapore di un miele speciale conosciuto al mercato. Di loro non rimane proprio nulla ora?

Credo che rimanga veramente poco. Purtroppo, è una zona dove non sono riuscito ancora a tornare e non so quando riuscirò, perché al momento è ancora una zona off limits. Io l’altra volta sono riuscito a tornare ad Adwa, ma quella parte lì è ancora occupata dagli eritrei e, quindi, non ci si riesce ad arrivare. Mi hanno detto che è ancora una delle zone più sofferenti, perché, ripeto, è ancora occupata e continua a succedere quello che è successo durante tutta la guerra. Mi hanno detto che l’ospedale è stato distrutto e la maggior parte della gente è stata uccisa. Non so cosa sia rimasto. Spero di poter tornare il prima possibile e capire cosa è rimasto, cosa si può fare e cosa si riuscirà a rimettere in piedi, sperando sia rimasto qualcosa. Tutto questo lo saprò quando riuscirò a tornare, spero presto”.

Il villaggio dei bambini si è salvato da quest’ultima guerra, e lo racconti come fosse stato un miracolo. Purtroppo, però, c’è tanta amarezza nel constatare che, nonostante i soldati non abbiano varcato il cancello, per la mancanza di medicine in questi anni tanti bambini hanno avuto segnato il loro percorso di vita. Quanto oggi c’è da ricostruire nel villaggio?

Da noi per fortuna, come ho scritto, non sono entrati e non è stata toccata la struttura, e questo è già un miracolo, perché è una delle poche strutture rimaste illese. C’è da ricostruire, certo, ma non tanto fisicamente all’interno del villaggio perché la struttura c’è. Quello che io ho trovato è che i bambini sono traumatizzati, spaventati, nonostante poi i bambini abbiano una forza di ripresa incredibile. Però, sono bambini che per tre anni hanno vissuto nella paura che ogni giorno entrasse qualcuno e che succedesse quello che era accaduto fuori, con i mortai che sparavano vicino. Gli sono proprio stati tolti tre anni di vita e tre anni di vita da bambino sono tanti; quindi, ci sarà da ricostruire il tempo perso che forse è la cosa più preziosa, la peggiore che puoi perdere soprattutto a quella età. Bisognerà cercare di ricostruire e recuperare il tempo che la guerra si è portato via”.

Questo tuo “ricostruire” mi fa considerare che in Etiopia il villaggio sorge vicino alle suore di Madre Teresa e proprio Madre Teresa diceva qualcosa tipo “se distruggono ciò che fai, ricostruiscilo”.

Conosco benissimo questa poesia”.

Tu sembri seguire questa sua impronta. Ti ha ispirato Madre Teresa in questo tuo cammino?

Mi ha ispirato tantissimo, conosco benissimo la poesia che dice ‘tutto quello che puoi fare può essere distrutto in un attimo, non importa, fai. Tutto quello che costruisci può essere abbattuto, non importa, costruiscilo’. È una poesia bellissima, ce l’ho a casa. Ho una parete dove c’è al centro un quadretto di Madre Teresa e intorno le foto di tutti i bambini miei, quindi, immagina quanto possa avermi ispirato. Infatti, io collaboro benissimo con le suore di Madre Teresa, perché mi piace molto il loro modo di lavorare, la loro filosofia. Ma Madre Teresa a chi non piace? Tra l’altro, ho sempre con me una medaglietta che mi diede proprio lei, perché io una volta sono riuscito ad incontrarla qua a Roma, al Celio, e mi diede una medaglietta che porto sempre con me. Anche stasera che parto ce l’ho in tasca. Pensa che quando mi hanno dato la collina dove sorge il villaggio, lì ad Adwa, mi dissero che quella collina era stata selezionata tanto tempo prima proprio da Madre Teresa per farci una loro casa. Poi scoppiò la guerra, ci fecero un campo militare, quindi, poi diedero loro un altro pezzo di terra, ma quel pezzo di terra era stato scelto da lei per farci la loro casa, poi è andata a me, quindi, c’è un filo che mi lega molto a lei, chiaramente idealmente, nessun tipo di paragone per carità”.

Però l’impronta c’è.

A me piace tanto”.

Mi sembra che ogni volta che hai un approccio con le persone del luogo, bambini e persone più diffidenti, alterni una sorta di dolcezza e di forza, sono queste le tue guide nel porti agli altri?

Forse sì, è una cosa a cui non ho mai pensato. Semplicemente io mi pongo come sono, sicuramente con i bambini serve dolcezza, non ho mai avuto bisogno di forza; con gli adulti serve a volte farsi rispettare, perché non è facile. Però, io mi sono sempre posto facendo capire che ero lì per aiutare e loro lo hanno sempre capito e non ho mai dovuto ricorrere ad azioni di forza, perché poi in realtà non ce n’è mai stato bisogno, nonostante ci siano stati momenti difficili. Con i bambini io dico sempre che è più facile, mentre con gli adulti è un po’ più complicato, però tutto è sempre incastrato nel modo giusto. Poi, se ho fatto un mix di forza e dolcezza questo non lo so. Non ci ho mai pensato”.

È ancora viva in te la sensazione della prima volta che ti hanno chiamato “Babajé”, papà?

Sì, ogni volta che mi ci chiamano è normale per me. Io so che domattina arrivo lì, so che mi aspettano tutti al cancello e non vedo l’ora di arrivare. Per me sono tutti figli, perché di fondo sono tutti figli. In loco li chiamano addirittura ‘Francesco’ di cognome, quindi, è una cosa che fa ridere un po’. Ripeto, io li conosco uno ad uno e la sensazione è sempre bellissima, io sono ancora qua, ma già sono con la testa lì, non vedo l’ora di arrivare”.

Quanti bambini portano il tuo nome lo sai?

No, il numero preciso, non lo so, ma l’80% ha il mio nome perché ce l’hanno tutti coloro che sono trovatelli, dei quali non conosciamo la provenienza, tutti quelli che sono stati abbandonati e gettati via, che sono la maggior parte. Poi, invece, ci sono quelli che magari mi hanno portato perché era morta la mamma di parto e quindi si conosce una provenienza ed hanno il cognome del papà. Sono quelli di cui non sappiamo nulla che quando li abbiamo registrati, servendo un cognome, ma non sapendo nulla di loro, hanno assunto il mio nome, ma il numero preciso di tutti loro non lo so”.

Correggimi se sbaglio, adesso il villaggio accoglie 103 bambini dai 0 ai 18 anni?

Sì, ma ce ne sono anche di più grandi, perché purtroppo questa guerra ha falsato un po’ tutto. Diciamo che noi formalmente dovremmo averli fino ai 18 anni, però poi non è che noi a 18 anni mandiamo via nessuno. Aspettiamo in genere. Li teniamo finché non si sono un po’ introdotti nella vita sociale e riescono ad essere indipendenti. Chiaramente questi ultimi tre anni hanno falsato tutto. Considera che io ho ragazzi che adesso hanno 18 anni e che si sono fermati all’equivalente del nostro secondo liceo, e non è che io posso dirgli adesso andate fuori perché avete 18 anni, dove vanno? Devono ancora fare tre anni di scuola. Si troveranno a 18 anni a ricominciare dal secondo liceo, perché per tre anni non sono andati a scuola. In questo momento sono saltate un po’ tutto quelle che erano le abitudini di prima, però non abbiamo mai messo fuori nessuno a 18 anni. Rimangono finché non sono in grado di cominciare a vivere un po’ da soli, appoggiandosi sempre da noi perché chiaramente sono soli fuori. Io dico sempre che si fa quello che si fa in ogni casa, in ogni famiglia: si cerca di lanciarli un po’ nella vita standogli sempre accanto”.

L’attività del Centro per l’alimentazione, che hai aperto per combattere la denutrizione, immagino abbia subìto anch’essa qualche scossone in questi anni?

In questi tre anni siamo dovuti proprio stare chiusi come Centro per l’alimentazione, perché in realtà non avevamo niente da dare, perché non c’era niente neanche per noi, per i bambini interni. Considera che l’altra volta che sono andato sono riusciti a cenare con un pezzo di pane e un bicchiere d’acqua, giusto perché eravamo riusciti ad avere della farina. Adesso le attività stanno riprendendo lentamente e si ricominciano a trovare delle cose, ma durante la guerra non si trovava veramente niente. Noi siamo stati fortunati perché avevamo delle provviste che io avevo fatto prima di partire l’ultima volta, perché sapevo che sarebbe scoppiata la guerra ed eravamo riusciti ad avere un camion del World Food Programme che ci aveva portato qualcosa, però chiaramente abbiamo dovuto un po’ pensare a tenere qualcosa da mangiare per noi e l’apertura del villaggio verso l’accoglienza esterna per il Centro dell’alimentazione l’abbiamo dovuta chiudere. Poi, del resto nessuno girava, nessuno sarebbe potuto venire, non andava in giro nessuno. L’altra volta lo abbiamo riaperto perché siamo riusciti a ritrovare pian piano il latte e una serie di cose; quindi, pian piano rimetteremo in piedi anche quello, ma fondamentalmente serve trovare gli alimenti da dare, ed è da poco che si riesce a ritrovare qualcosa. Quindi è chiaro che riapriamo, anzi abbiamo già riaperto”.

In partenza per l’Etiopia, è questo il tuo obiettivo imminente?

Di riaprire un po’ tutto intendi?

Sì.

L’obiettivo adesso è far ripartire un po’ tutto, perché si è fermato tutto e l’obiettivo è, per i bambini che sono all’interno del villaggio, di farli ritornare alla normalità. Normalità significa avere dei pasti, avere un po’ di serenità, studiare, fare quello che a noi sembra scontato ma non lo è. Per le persone fuori, invece, significa ricominciare ad avere un po’ di speranza anche per loro, riavere qualcosa da mangiare e non starsi a preoccupare di sopravvivere. Per fortuna i combattimenti si sono fermati, quindi sembra che questa pace tenga. Bisogna rimettere in moto tutto. Come una macchina che è stata ferma per tanto tempo, bisogna ricominciare piano piano a camminare, come si può, compatibilmente con la situazione che è ancora complicata. Ci vorrà tempo”.

Se potessi chiedere qualcosa in un appello, cosa chiederesti?

Forse quello che vorrei chiedere, e che chiedo sempre, e che è anche l’idea del motivo per cui ho scritto il libro, è che tutti si ricordassero che la vita non è solo quello che facciamo noi e che ci sono tanti altri posti che magari sono lontani, di cui noi non sappiamo niente, ma dove ci sono tanti, tanti problemi. Tutto ciò che per noi è scontato, non è scontato per gli altri. Io dico che già se uno si ricordasse questo e facesse nel suo piccolo qualcosa, sarebbe già tanto. Forse quello che chiederei è appunto che ognuno facesse qualcosa, anche cose piccole, basta veramente un pensiero. Se ognuno nel suo piccolo facesse qualcosa, io penso che il mondo sarebbe veramente un posto diverso. Non si chiede nulla, veramente solo piccole gocce. Basterebbe, in fondo, avere la coscienza già di quello che succede e di quello che si può fare. Tutti possiamo fare tanto e se ognuno facesse nel suo piccolo qualcosina, veramente le cose andrebbero in modo tanto diverso”.

Dal 2000, quando tutto è cominciato, ad oggi, in quali pregiudizi ti sei imbattuto e quanto amore hai incontrato?

Di amore ne ho incontrato tanto e i pregiudizi sono un po’ quelli che purtroppo sono anche dovuti spesso a quello che sentiamo in giro, quindi la mancanza di fiducia nelle persone, la mancanza di fiducia in quello che si fa. Tante persone pensano che magari il loro aiuto vada perso in qualche modo o che vada sprecato. Io, proprio perché prima parlavamo di Madre Teresa, ho sempre tenuto a mente una frase che mi disse proprio una delle suore di Madre Teresa. Tante volte io aiuto anche le persone fuori e delle volte ci sono anche quelli che ti imbrogliano, che ti chiedono aiuto e poi magari non ce ne hanno bisogno. Tante volte, dicevo a questa suora, che mi è difficile distinguere chi ha veramente bisogno da quello che magari se ne approfitta e viene a chiedere, che è quello che succede anche qua. Questa suora di Madre Teresa mi disse: ‘Guarda Madre Teresa diceva sempre: preferisco essere ingannata mille volte piuttosto che aver negato l’aiuto a qualcuno che aveva veramente bisogno’. E questo è quello che ho sempre seguito io. I pregiudizi sono purtroppo quelli che vediamo e che sentiamo tante volte di quello che accade negli scandali. Però questo spesso diventa una scusa per non fare, perché in tanti dicono: vabbé non faccio niente perché poi chissà dove vanno a finire i soldi. In realtà, con un po’ di attenzione si può fare tanto e poi, come dico io, non è che l’aiuto passa attraverso un aiuto economico, l’aiuto è anche l’avere la coscienza di quello che accade, già quello è tanto, già quello ci fa comportare in un modo diverso, già quello è un bel gesto”.

Il tuo sguardo poi dall’Etiopia si è allargato anche a un’altra realtà dura, quella delle prostitute bambine della Repubblica Dominicana. Quando e come ti sei avvicinato a quest’altra drammatica realtà?

Mi ci sono avvicinato tramite un pediatra che veniva ad aiutarci ad Adwa, che è un pediatra che lavora negli Stati Uniti per un grande ospedale e si occupa di progetti di sostegno all’estero per i paesi più poveri. Un giorno mi chiamò e mi disse: ‘Francesco, devi venire in Repubblica Dominicana, perché io sono stato e c’è una realtà tremenda, devi venire a vedere’. Io devo dire che ero un po’ dubbioso, perché non ero mai stato in Repubblica Dominicana e la visione che avevo era di spiagge bianche, di un posto di vacanza. In realtà, poi, è un posto veramente complicato, dove ci sono problemi completamente diversi. In Africa c’è più povertà, in Repubblica Dominicana c’è più miseria, dove per miseria io intendo proprio miseria morale, nel senso che in Africa non succederà mai che una madre mandi la figlia a prostituirsi o la metta per strada, in Repubblica Dominicana invece succede con genitori che sono assenti e che bevono. Lì c’è tanta droga che gira. Le bambine vengono spesso usate, mandate anche dalle famiglie a prostituirsi; quindi, è una situazione molto più complicata. Così abbiamo aperto un progetto, ‘Le ragazze di Boca Chica’, piccolo rispetto a quello dell’Africa, ma anche lì abbiamo aperto un centro dove lavorano due psicologhe, un’assistente sociale e delle insegnanti e cerchiamo di togliere queste bambine dalla strada e di dargli un futuro. Toglierle dalla strada è la cosa principale, poi si dà loro un sostegno psicologico, perché sono tutte bambine che hanno passato l’inferno, e si cerca di reinserirle un po’ nella società, insegnandole un lavoro, insegnandole che c’è anche un altro modo di vivere che non è quello che gli viene trasmesso dalle famiglie purtroppo”.

L’associazione James Non Morirà porta aventi entrambi i progetti, quello del Tigray e quello della Repubblica Dominicana. Ho notato un certo pudore nel raccontare chi fosse James, sbaglio o è così?

No, non c’è nessun pudore. James era un bambino che all’inizio, quando io sono stato giù, aveva tre anni e soffriva di una forma di leucemia. È stato il primo bambino che abbiamo cercato di aiutare e non siamo riusciti ad aiutarlo perché è mancato poco dopo. Lui è mancato nel momento in cui abbiamo costituito l’associazione, quindi, abbiamo voluto dargli il suo nome, nel suo ricordo, e che lui fosse un po’ il senso di far sì che questo non succeda ancora. Chiaramente questo è un sogno, un’utopia, ma almeno possiamo salvare tanti piccoli James e far sì che non siano costretti tutti a quel tipo di destino”.

Allora quel pudore è il calore speciale che tu dai a tutti i bambini di cui racconti…

Io dico sempre che a me piace raccontare quello che di bello si può fare, ciò che di brutto succede lo sappiamo. Nel libro ci sono racconti anche più dolorosi e drammatici, però ho sempre cercato di raccontare il bello che si può fare. Io cerco sempre di coprire con un velo di delicatezza tutto, soprattutto le persone che sono mancate, quindi forse quel pudore è quello, ma non me ne sono neanche accorto perché non era consapevole”.

Hai una bellissima famiglia che ti è stata ed è accanto in questa tua preziosa scelta di vita; e poi c’è Giorgia che ti ha invitato a raccontare questa tua avventura…

Giorgia è la mia compagna. Ha sentito tante volte raccontare di queste cose e mi diceva sempre che avrei dovuto scrivere un libro. Io le rispondevo che lo avrei fatto quando avrei avuto tempo. Poi quando ci sono stati la guerra e il Covid e non sono riuscito ad andare mi ha detto: ‘Scrivere un libro è quello che adesso puoi fare per dare loro voce, visto che non puoi aiutarli andando giù, puoi cercare di aiutarli da qua’. Giorgia, quindi, ha partecipato alla stesura. Io scrivevo e le leggevo man mano le pagine chiedendole: ‘Com’è? Ti piace? Che dici?’. Così non solo mi ha spinto a scriverlo, ma ha assistito alla nascita di questo libro. Il libro l’ho scritto non perché si raccolgono fondi, perché alla fine quanto arriva di diritto d’autore è pochissimo, ma proprio perché vorrei sentirmi dire da tutti quelli che lo leggono che sono riuscito a far capire loro tante cose, aprendo loro gli occhi. Quando sento che le persone mi dicono che questo libro gli ha fatto bene al cuore, io dico loro che l’ho scritto proprio per questo, perché quello che ho fatto io per venti anni mi ha fatto bene al cuore. Il senso del libro è questo: voler trasmettere il bene al cuore che ho avuto io a più persone possibili”.

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