Magnetico è il pathos tra Daniele Russo e Sergio Del Prete nel dare forma all’interiorità della Jennifer disegnata da Annibale Ruccello

Si è colpiti dritti al cuore dallo spettacolo “Le cinque rose di Jennifer” di Annibale Ruccello (drammaturgo, attore e regista, scomparso nel 1986 a soli trent’anni), per la regia di Gabriele Russo, con un sempre bravo Daniele Russo e un altrettanto bravo Sergio Del Prete (una produzione Fondazione Teatro di Napoli – Teatro Bellini, durata 90’). Il testo non è facile e spiazza chi si avvicina per la prima volta immaginando un’opera leggera e ritrovandosi, invece, di fronte a dei sorrisi amari. Anzi, i più sensibili restano tanto attoniti da non riuscire neanche a gustarsi i momenti di apparente leggerezza. La pièce è scandita dalla ripetizione di gesti e azioni in un crescendo di drammaticità, acuita da momenti in cui gli attori si muovono avvolti da un rumore sordo che pietrifica chi li guarda. Il tema dell’attesa della telefonata dell’amato s’intreccia all’ascolto della radio che informa della presenza di un serial killer. Il protagonista, Jennifer, si presenta al pubblico di ritorno dalla spesa in abiti maschili, ma piano piano si sveste di quell’abbigliamento per indossare, protetto dalle sue mura domestiche, i panni suoi più consoni, quelli di un travestito. Vive in un quartiere popolare di Napoli negli anni ’80, ma, se non fosse per l’uso della lingua partenopea, potrebbe abitare in qualsiasi angolo del mondo in attesa del suo innamorato che vive in un’altra città. Jennifer fa di tutto per tenere accesa la speranza del suo sogno d’amore a cui si aggrappa disperatamente, pensando a un domani migliore fuori dalle miserie umane dei pregiudizi verso la sua condizione identitaria. Così facendo però, si chiude sempre più nell’abisso della sua solitudine. Si attacca ad ogni squillo del telefono, ma a chiamarlo non è mai il suo Franco; alla voce dall’altra parte del filo apre ogni volta ingenuamente il suo cuore in piena, però o viene respinto nel suo racconto fiducioso e tormentato oppure è lui a troncare la telefonata per non tenere la linea occupata: se dovesse chiamare il suo innamorato? A fargli compagnia è la radio, con un programma radiofonico, la cui parte centrale è data dalle dediche di ascoltatori innamorati, e con le canzoni romantiche che vengono trasmesse, che lui canta con partecipazione, quasi come se Mina o Patty Pravo fossero sue amiche. In questa sua disperata solitudine, Jennifer è accompagnata dall’inizio alla fine da un’ombra che ora si palesa come immagine allo specchio, ora come coscienza, ora come vicina di casa. In questa sorta di passo a due, magnetico è il pathos che si crea tra un intenso Daniele Russo e un vibrante Sergio Del Prete, tanto da restituire in un levarsi di gesti e parole l’interiorità sognatrice e sconfitta di Jennifer. Ad accentuare la veridicità della narrazione intervengono l’appartamento ricostruito in un cerchio da Lucia Imperato, i costumi di Chiara Aversano che scandiscono le trasformazioni di un’anima fragile, il disegno luci di Salvatore Palladino che illumina o mette in ombra sapientemente il definibile e l’ineffabile ed, infine, il progetto sonoro di Alessio Foglia che talvolta ammanta e a volte stordisce. Alla prima al Teatro Vascello di Roma (in via Giacinto Carini 78) i due attori sono stati abbracciati dal calore degli appalusi di un pubblico che ha apprezzato tutte le sfumature dell’animo gentile e incompreso di Jennifer. Le repliche qui continueranno fino a domenica 16 aprile, con l’arricchimento letterario (sabato 15 ore 17) della presentazione del libro “Le cinque rose di Jennifer” di Annibale Ruccello, a cura di Vincenzo Caputo (Edizioni di Storia e Letteratura), con letture di Daniele Russo.

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