InterCulturiamo, per una narrazione contro le discriminazioni

Siamo una società multiculturale, ma quanto interculturale? Nella XVIII Settimana d’azione contro il razzismo, il 21 marzo, l’Università la Sapienza ospita il seminario “Raccontarsi per riconoscersi oltre gli stereotipi”, a conclusione del progetto “La gestione degli shock culturali come strumento antidiscriminazione”, promosso da Fondazione InterCammini e finanziato dall’Ufficio nazionale antidiscriminazioni razziali del Dipartimento Pari Opportunità della Presidenza del Consiglio dei ministri. In causa sono chiamati tutti i tipi di narrazione per promuovere una intercultura che sia vera conoscenza dell’altro. Cinema, teatro, musica, libri devono concorrere ad abbattere le discriminazioni. La giornata del 21 marzo non è stata scelta a caso: è la Giornata internazionale per l’eliminazione della discriminazione razziale, istituita dalle Nazioni Unite nel 1966. È assurta a data simbolo perché il 21 marzo 1960 avvenne il massacro di Sharpeville in Sudafrica, nel periodo di massima intensità delle proteste popolari contro la politica dell’apartheid messa in atto dal National Party: durante una manifestazione pacifica, la polizia sudafricana aprì il fuoco sulla folla dei dimostranti, uccidendo 70 persone.

In questa pagina, i relatori del seminario si passeranno il testimone ponendo l’attenzione ora alla sollecitudine verso le vittime – lo farà Roberto Bortone, funzionario Unar -; ora al significato di neorazzismo – sarà il compito del professore Stefano Tedeschi -; ora all’importanza della formazione interculturale – sarà sottolineata da Cinzia Sabbatini, presidente Fondazione InterCammini -; ora alla consapevolezza del modo in cui comunichiamo – sarà richiamata da Cristiana Russo, formatrice e mediatrice interculturale -. A loro seguiranno le testimonianze sul campo di: Marilena Delli Umuhoza, regista, fotografa e autrice; Danila Muzzi, autrice e regista del corto documentario “Ali”; Ali Batthi, attore; Grazia Sgueglia, organizzatrice del Laboratorio Teatrale “Oltre i Banchi”.

“Le vittime di discriminazione se le lasciamo da sole nella loro condizione di vittime difficilmente riescono a risollevarsi. Se invece le mettiamo al centro di un lavoro culturale di sensibilizzazione riescono a dare un contributo alla società e noi siamo tutti convinti che lo possono dare”

Roberto Bortone, funzionario Unar (Ufficio nazionale antidiscriminazioni razziali – A difesa delle differenze)

L’obiettivo per cui è nato l’Ufficio nazionale antidiscriminazioni razziali è proprio quello di contrastare ogni forma di discriminazione, ma non c’è solo il contrasto e la rimozione, c’è anche tutta l’attività di sensibilizzazione, quella che si svolge su un altro piano che è quello culturale, formativo, del convivere. Se vogliamo, è anche un piano proprio di educazione civica e la settimana contro il razzismo, che quest’anno giunge alla diciottesima edizione è un momento, è una settimana appunto nei quali l’Unar concentra la sua attività cercando di far passare alcuni messaggi da un punto di vista proprio culturale, comunicativo. Quest’anno la settimana in particolare è dedicata a Mamadou Moussa Balde, il giovane aggredito brutalmente a Ventimiglia. Era ospite di un Centro di Permanenza e alla fine ha deciso di togliersi la vita proprio anche in riferimento a tutti gli episodi di discriminazione subiti, ma in una condizione esistenziale di abbandono e indifferenza nella quale era stato lasciato, cioè è vittima della discriminazione, ma vittima due volte perché vittima anche dell’indifferenza di chi avrebbe dovuto stargli vicino e non c’è riuscito ed è proprio questo il senso della settimana. Non è solo quella di denunciare la discriminazione e condannare ogni forma di odio nei confronti dei migranti, dei rifugiati, delle persone con un orientamento sessuale diverso, nei confronti dei Rom, dei Sinti, ma l’idea della settimana per cui l’Unar l’ha voluta, e ogni anno la ripropone, è quella di stare vicino alle vittime, di mettere al centro le vittime, di farle parlare, di far parlare di loro, anche in termini differenti. Le vittime di discriminazione se le lasciamo da sole nella loro condizione di vittime difficilmente riescono a risollevarsi. Se invece le mettiamo la centro di un lavoro culturale di sensibilizzazione riescono a dare un contributo alla società e noi siamo tutti convinti che lo possono dare. Questo è il senso della settimana e quindi dei tanti eventi. Questa settimana si colloca in un momento storico particolare, in un scenario anche internazionale particolare che ci dice che non dobbiamo abbassare la guardia nei confronti di ogni forma di discriminazione, quindi non bisogna discriminare tra le persone in difficoltà, non bisogna discriminare tra le persone più povere, non bisogna discriminare tra i rifugiati, non bisogna discriminare neanche tutti coloro che sono impegnati quotidianamente per la promozione dell’inclusione sociale e possono sentirsi esenti da questo discorso perché c’è sempre una forma di discriminazione diretta o indiretta che anche noi possiamo attuare nella nostra società, a volte senza rendercene conto. Quindi il messaggio oggi è anche questo. Il claim di quest’anno è #piùdiversita e il senso è che ci vuole più diversità, cioè la diversità non è un disvalore, non è un qualcosa di cui dobbiamo aver paura, ma è qualcosa che ci arricchisce e chiaramente questo è un messaggio più complesso rispetto alle semplificazioni date dalla paura, dal razzismo, è un messaggio più complesso e quindi più complesso anche più difficile da veicolare e da far passare, per questo bisogna partire anche un po’ dal basso. L’idea della settimana è anche questo, si tratterà di tanti eventi, magari anche piccoli, in città, in comuni, in piccoli borghi, dove però nella vita reale tutti i giorni questi sono temi e sono fenomeni che le persone vivono e sentono come questioni importanti. Il vicino di casa nuovo che viene da un altro Paese oppure l’accoglienza ai rifugiati, di rispondere a delle questioni molto concrete, però con la chiave giusta. il claim è #piùdiversita quindi non bisogna averne paura, ma bisogna essere contenti che la nostra è una società più diversa. Ci sono eventi che affrontano diversità di tutti i tipi. Sono trentasette i progetti finanziati nell’ambito della Settimana contro il razzismo, quindi, sono progetti che hanno vinto un bando pubblico che l’Unar sosterrà e si parla di razzismo, ma non solo, si parla della xenofobia, di accoglienza ai rifugiati, di tutte le diversità che esistono nella nostra società”.

Stefano Tedeschi

“Non bisogna credere mai che il razzismo, la discriminazione e i pregiudizi siano un problema risolto, come se pensassimo che arriverà un momento in cui supereremo tutto, in realtà bisogna sempre tenere la guardia molto alta”

Stefano Tedeschi, professore di Lingua e letterature ispano-americane del Dipartimento di Studi Europei, Americani e Interculturali di Sapienza Università di Roma

Il Neorazzismo. “Nel corso di questi anni, se è vero che la parola razza/razzismo è stata in qualche modo bandita, nel senso che nessuno si dichiara più razzista, però è stata fatta un’operazione che è quella di sostituire alla parola razza la parola cultura. Per cui il neorazzismo è quello che stabilisce che gli uomini sono diversi per culture, ma nel senso negativo del termine, nel senso che ci sono culture superiori, culture inferiori e, di conseguenza, si possono mantenere quelle divisioni che prima c’erano in base alle razze, su altre basi, e poi da quello rispuntano fuori anche però le ossessioni del passato, come quello del colore della pelle. Per cui anche se il colore della pelle oggi non viene considerato come un elemento divisorio, in realtà ancora lo è, lo vediamo molto bene anche in questi ultimi anni e nelle ultime settimane, per cui ci sono tipologie diverse di persone che vengono da lontano e che vengono considerate in maniera diversa, a seconda del loro colore della pelle quello sì. Anche se in teoria non si vuole più dire, ma è ancora una pesante eredità che abbiamo su questo tema”. Lo shock culturale. “È quando una persona si trova in uno spazio, in un mondo differente dal suo, da quello in cui è nato, si è formato, è cresciuto e si trova di fronte a tradizioni, abitudini, ma anche la lingua, che sono talmente diversi da provocargli appunto uno shock. D’altra parte, questo shock può essere vissuto anche da chi accoglie le persone e si trova di fronte a tradizioni diverse. Negli studi sugli shock culturali questo è considerato il primo step, il primo passaggio, per poi passare a una riflessione sia sulla presenza degli altri, sia su sé stessi, per mettere in discussione, magari anche degli stereotipi, delle tendenze che noi abbiamo e che magari proprio nel momento dopo lo shock si rivelano senza fondamenti”. Il dialogo. “Io credo che sicuramente nei decenni passati era difficile, ci si trovava nella difficoltà, probabilmente basata sulla scarsa conoscenza, sui pregiudizi che si avevano sul resto del mondo. Devo dire che se un qualcosa di positivo e forse di apertura c’è, la vedo nelle nuove generazioni grazie sia al contatto diretto, sia alla possibilità di conoscere attraverso i viaggi, sia anche alle persone che vengono da altri luoghi. Questo ha sicuramente aiutato e sta aiutando forme di dialogo magari meno istituzionali, meno evidenti, ma che hanno risultati più profondi. Poi non dimentichiamo la presenza sempre maggiore, proprio nelle nuove generazioni, di ragazzi e ragazze che hanno origini straniere ma che sono nati qui, hanno vissuto qua e che favoriscono sicuramente questa esperienza di dialogo in una maniera nuova”. L’esperienza didattica che è cambiata negli anni. “Sicuramente è cambiata moltissimo. Avere sempre più persone e studenti che appartengono a questa realtà è una cosa che nelle scuole elementari, medie, superiori, è già avvenuta, nell’università sta avvenendo da meno tempo, perché arrivano all’università per ragioni anagrafiche, ma che sicuramente ha influito moltissimo sulla nostra didattica, sulla nostra visione”. Il messaggio del 21 marzo. “Non bisogna credere mai che queste questioni, il razzismo, la discriminazione, i pregiudizi, siano un problema risolto, come se pensassimo che arriverà un momento in cui lo supereremo tutto, in realtà bisogna sempre tenere la guardia molto alta, perché possono sempre riemergere, possono sempre rispuntare, laddove forse meno ce lo aspettiamo, forse questo è stato un po’ un errore che abbiamo fatto, almeno la mia generazione, di credere che effettivamente il razzismo in Italia almeno, fosse una questione di cui avevamo risolto i problemi, invece non era vero e poi ne abbiamo pagato le conseguenze”.

Cinzia Sabbatini

“La formazione interculturale non è qualcosa di superfluo. La relazione interculturale è molto bella, ma complessa e bisogna avere gli strumenti per saperla gestire”

Cinzia Sabbatini, presidente Fondazione InterCammini

Lo shock culturale è uno strumento di antidiscriminazione. “Ci permette di lavorare sui dettagli della situazione, della relazione interculturale e, quindi, evita un po’ quel meccanismo strano che si crea quando c’è una relazione interculturale, perché per semplicità il nostro cervello tende a creare questi stereotipi che appunto ci aiutano un po’ ad affrontare una situazione un po’ complessa come la relazione interculturale, mentre invece l’analisi dello shock culturale fatto con la griglia di analisi ideata da Margalit Cohen Emerique, ci permette di lavorare sul quadro di riferimento culturale delle persone che sono interessate e di entrare più nel dettaglio della situazione, quindi, cercando proprio di prenderne atto e sapere un po’ gestirla al meglio”. È avvenuto il passaggio dalla società multiculturale a quella interculturale? “Non sappiamo se è ancora avvenuto, secondo me, perché in alcuni casi ci troviamo sempre in una società multiculturale che vuol dire una società in cui in realtà non c’è uno scambio tra le varie culture. Questo scambio avviene in genere quando c’è un lavoro sulla formazione interculturale, come stiamo cercando di fare un po’ noi. Se non c’è questo scambio, se non c’è questa interazione tra le varie culture, non ci può essere una realtà interculturale e, quindi, rimaniamo sulla multicultura che è una coesistenza appunto di culture messe tutte insieme che, però, non hanno lo scambio e, se non c’è scambio, non c’è ricchezza poi, la ricchezza che porta l’intercultura”. Il pericolo di emarginazione è sempre dietro l’angolo? “Quello sempre. L’emarginazione nasce poi molto dalla paura, dalla paura di perdere qualchecosa e, quindi, dal mettere le persone in condizione subordinata e, quindi, c’è poi pericolo di emarginazione, di emarginare le persone più deboli e le persone che hanno più difficoltà di comunicazione, come gli stranieri e come tante altre persone”. Come si educa all’incontro tra le culture? “Si educa, appunto, con la formazione interculturale, come facciamo noi e come tante altre persone che lavorano nel nostro campo, però sicuramente la formazione interculturale permette proprio di lavorare su questo scambio che è fondamentale appunto fra le culture e che però deve avere degli strumenti, come è appunto quello del metodo degli shock culturali che permette proprio di entrare nel pratico delle situazioni di relazioni interculturali e, quindi, di saperle poi gestire e di non avere più paura dell’altro diverso, ma vederlo in questo modo come una grande ricchezza, com’è appunto la persona diversa, però veramente questo impiega un grosso lavoro che non è un lavoro di poco, ci vuole un bel lavoro”. Un lavoro che va cominciato coi giovani in tenera età o da adolescenti, se non maggiorenni? “Secondo me, bisognerebbe iniziare sin da piccoli, in modo particolare in famiglia, perché molti dei pregiudizi e stereotipi che ci sono, sono in famiglia e, quindi, spesso nasce proprio da questo; quindi, prima si riesce ad avere un po’ di educazione interculturale, prima si riesce a vivere come una ricchezza”. L’importanza della formazione interculturale. “L’educazione interculturale, la formazione interculturale, è qualche cosa non di superfluo come sembra al giorno d’oggi, perché, alcune volte io me ne accorgo come professionista che sta sul campo, sembra un qualche cosa di superfluo mentre invece è molto importante, proprio perché viviamo in una società complessa, la relazione interculturale è molto bella, ma complessa e bisogna avere gli strumenti per saperla gestire”.

Cristiana Russo

“Bisogna essere più consapevoli del modo in cui comunichiamo”

Cristiana Russo, formatrice e mediatrice interculturale

Il metodo degli shock culturali andando ad analizzare il quadro di riferimento personale, inevitabilmente prende in considerazione, analizza anche gli stereotipi e i pregiudizi con i quali leggiamo e guardiamo il mondo e quindi ci aiuta ad essere più consapevoli del modo in cui comunichiamo, del modo in cui guardiamo gli altri nelle relazioni e questo ci aiuta nelle relazioni con gli altri soprattutto quando gli altri sono appartenenti a gruppi che possono essere bersaglio o oggetto di discriminazioni o di stereotipi e pregiudizi”.

Marilena Delli Umuhoza

“Bisogna decolonizzare la narrazione”

Marilena Delli Umuhoza, regista, fotografa e autrice del memoir “Razzismo all’italiana. Cronache di una spia mezzosangue” e dello Young Adult “Negretta. Baci razzisti”.

Ho deciso di scrivere perché sono cresciuta nella totale assenza di una rappresentazione, soprattutto di una rappresentazione positiva nei confronti delle persone afrodiscendenti come me. Sono cresciuta con testi con uomini neri da cui fuggire, che leggo tuttora; con gatti neri porta sfortuna perché il nero comunque viene associato in generale alla violenza, alla negatività in generale e, quindi, allo sporco. Sono cresciuta con narrazioni, soprattutto da parte dei mass media, negative nei confronti dei corpi neri, che seguivano il filone della disperazione, della criminalità e, poi, per quanto riguarda le donne, il fatto di essere una donna nera italiana, per me vuol dire avere a che fare non solo con il sessismo, come ogni altra donna, ma anche con il razzismo strutturale e con il retaggio coloniale che sono tutti quei cliché che sono parte della cultura italiana, dovuti al fatto che l’Italia non abbia realmente fatto i conti con il proprio passato coloniale. Basti pensare a vignettisti come Enrico De Seta dell’epoca fascista che rappresentavano le donne abissine completamente nude. Tutto questo non ha fatto che incrementare l’ipersessualizzazione del corpo nero femminile, la sua esoticizzazione, dunque i corpi neri finiscono per essere strumentalizzati dai mass media per finire in pasto al dibattito politico pubblico e mediatico completamente deumanizzati e spogliati dalla loro dignità. Lo vediamo nelle immagini che ci restituiscono gli schermi di questi migranti che raggiungono le nostre coste e sono al culmine della vulnerabilità, della loro fragilità e queste immagini sono strumentalizzate. Quindi, queste sono immagini che non fanno che deumanizzare una persona, la depredano, per usare le parole di uno scrittore statunitense che amo molto afroamericano Ta-Nehisi Coates; sono dei corpi estranei per usare le parole di un’altra scrittrice italiana afrodiscente Oiza Queens Day Obasuyi. Quindi, è molto importante cercare di decolonizzare questa narrazione, di decolonizzare i mass media e, con il mio lavoro di autrice, ho cercato di risignificare il corpo nero femminile restituendogli quindi dignità, creando una delle rare protagoniste nere italiane nella Letteratura appunto italiana e, ripeto, Letteratura italiana, perché io sono italiana e, quindi, ho voluto dare voce a questo personaggio importante la cui identità viene messa in discussione, sto parlando della protagonista di ‘Negretta baci razzisti’ che non a caso si chiama come me, Marilena. La sua identità viene messa in discussione fin dall’anagrafe quando i genitori che vanno a registrare il suo nome, Umuhoza, un nome ruandese scelto con amore dalla madre che appunto è ruandese, ma l’impiegato dice a entrambi i genitori che questo è un nome ridicolo e non può finire su un documento italiano. Tra parentesi trent’anni dopo è successa la stessa cosa quando mia madre è diventata nonna, ha cercato di dare il nome ruandese alla sua nipotina, a mia figlia, e in un altro comune d’Italia si è ripetuta la stessa scena e quindi quel nome, un nome ruandese, non è finito ancora una volta sulla carta d’identità italiana. Quindi, anche ‘Negretta’ è la scelta di un titolo molto forte che io ho risignificato: è il nome con cui sono stata chiamata da quando sono nata, dal personale ospedaliero, al primo giorno che ho messo piede a scuola da compagni, insegnanti. Quando non c’erano loro, c’erano comunque i passanti, i parenti, gli ‘amici’, gli impiegati pubblici, appunto. E se non erano le persone, c’erano i muri con le loro scritte, ‘Immigrati? Affondate i barconi’, a ricordare appunto a questa donna nera che era indesiderata sia lei che la sua famiglia. Quindi questa è la storia di una donna nera che, tra l’altro, cresce in una delle zone più conservatrici d’Italia, Bergamo, negli anni Ottanta e Novanta che poi sono gli anni del boom della Lega Nord. Anche attraverso il mio lavoro di regista e fotografa, cerco di decolonizzare la musica, visto che dal 2009 lavoro come regista e fotografa con un partner d’eccezione che è Ian Brennan, produttore musicale. Noi ci focalizziamo soprattutto sull’Africa con artisti di strada e, non a caso, il nostro primo lavoro, album, nasce in Ruanda, che è uno dei paesi meno rappresentati. Abbiamo lavorato a quasi una quarantina di album insieme in questo lasso di tempo di quattordici anni; quindi, sono stati rilasciati a livello internazionale questi album in venticinque lingue diverse, anche recuperando lingue che rischiavano di essere perdute. Purtroppo, nella musica c’è una grande assenza di democrazia e, nonostante Internet voglia dare questo senso di inclusione, di meritocrazia, di democrazia, Internet non fa che disconnetterci. Pensiamo al fatto che il 75% circa della musica commerciale che ascoltiamo è in mano a tre major e che il 90% della musica streaming è nelle mani praticamente concentrate in quell’1% che è fatto dalle solite grandi superstar e questo toglie voce ad altri artisti che in altre arti meno rappresentate del mondo non hanno voce. Con il nostro lavoro, Ian Brennan e io, cerchiamo proprio di dare voce ed un palcoscenico a voci che altrimenti sarebbero non ascoltate o censurate, come abbiamo fatto ad esempio nella prigione di Zomba in Malawi, prigione di massima sicurezza da cui è nato l’album ‘Zomba Prison Project’, che abbiamo registrato con le donne e gli uomini prigionieri che ci è valsa una Nomination ai Grammy, gli Oscar della musica, del 2016. Poi siamo stati, ad esempio, nell’isola Ukerewe in Tanzania, in cui abbiamo incontrato la comunità albina di questa zona che sappiamo tutti essere purtroppo oggetto di discriminazione. Questa è una comunità che rischia la propria vita e, quindi, anche a livello proprio vocale e musicale la loro voce è praticamente strozzata sempre, viene silenziata. Per questo abbiamo realizzato un bellissimo workshop musicale, da cui è poi nato l’album ‘Tanzania Albinism Collective’. Uno degli ultimi progetti è ‘Witch Camp (Ghana)’ che abbiamo registrato in Ghana con le donne accusate di stregoneria. Ricordiamo che il Ghana è l’unico Paese al mondo in cui esistono ancora questi campi in cui si trovano donne accusate di stregoneria. Con questo lavoro anche di regia, di fotografia, in collaborazione con questi artisti di strada, cerco anche di decolonizzare il mondo della musica. Ed è questo un lavoro che va fatto anche a livello scolastico, soprattutto a livello scolastico. Nei testi scolastici mancano delle pagine importanti di storia: quelle delle persone di origine straniera, delle persone nere che hanno fatto la storia d’Italia e sono veramente tantissime. Io ho fondato, insieme a Sambu Buffa, l’Academy dell’Antirazzismo. Noi abbiamo un corso specifico che si chiama Black History Month dove vediamo insieme tutta una serie di personaggi che sono offuscati dai libri scolastici italiani. Sono veramente tantissimi, dal filosofo Sant’Agostino a tutti i santi come Bakhita, oppure addirittura San Zeno. E poi rivediamo insieme tantissimi personaggi, anche che fanno parte della schiavitù che, comunque, la schiavitù mediterranea è stata una realtà per secoli e secoli in Italia, cioè dal ‘400 all’800. Ed è qui, proprio in quel lasso di tempo, che anche diverse persone afrodiscendenti sono diventate parte della comunità italiana. Ricordiamo che a Napoli c’era una comunità molto vasta, la più grande di schiavi, e che Livorno era una delle città a più alta concentrazione di schiavi in Italia. Ci sono anche altre pagine importanti come quelle della Resistenza, quella dei partigiani neri, che sono una parte importante della storia italiana. Ma ce ne sono tantissimi, dall’antica Roma ad oggi, e noi in quel corso ne parliamo tantissimo. Sono delle pagine che sono assenti nei libri di testo scolastici che devono essere raccontati, così come deve essere raccontato in maniera più ampia e approfondita il discorso delle responsabilità dell’Italia in epoca coloniale, perché comunque ci sono dei fatti storici come l’uso di gas chimici illegali, il genocidio che si è compiuto nel Corno d’Africa piuttosto che gli zoo umani oppure anche l’apartheid forzato, il fatto che non si permettesse ai bambini di continuare gli studi, e il madamato. Sono tutti aspetti che sono importanti da ricordare che precedono poi le vere e proprie leggi razziali che sono esplose durante il regime di Mussolini e, poi, sono sfociate anche con le famose leggi contro il meticciato del 1940. Dunque, bisogna fare un grandissimo lavoro di decolonizzazione nella narrazione rispetto ai corpi neri che appunto vengono deumanizzati, spogliati, proprio della loro dignità e anche di un vero e proprio contesto storico, visto che questi corpi neri hanno sempre fatto parte della storia italiana e lo sono tuttora e vanno raccontati. Dunque, c’è sicuramente molto lavoro da fare. C’è l’Oscad (Osservatorio per la sicurezza contro gli atti discriminatori) che è l’organizzazione delle interforze di sicurezza contro gli atti discriminatori in Italia che ci dice che tre episodi di violenza su quattro hanno a che fare con il razzismo, purtroppo. Ci sono tantissimi enti, come ad esempio l’Unar, che monitorano il razzismo in Italia che è un fenomeno sempre più crescente, che cresce di pari passo con la presa di coscienza dei propri diritti da parte delle persone di origine straniera in questo Paese. Il razzismo istituzionale raggiunge il picco in Italia con l’attuale legge sulla cittadinanza che discrimina circa un milione di ragazzi che sono nati o cresciuti in questo Paese e a cui viene negato, per esempio, il diritto di partecipare a livello agonistico a gare sportive, il diritto a partecipare a concorsi, a fare gite scolastiche, l’Erasmus e, in ultimo, il diritto anche di votare, perché tra i 18 e i 21 anni se non di più, il tempo che passa dall’inoltro della domanda di cittadinanza che se tutto va bene viene inoltrata a 18 anni, all’ottenimento della cittadinanza, c’è proprio un gap di tre anni in cui comunque questi individui, queste persone, non possono votare e sono certamente più motivate a votare rispetto alle tantissime italiane, quindi bianche, che danno per scontato il proprio diritto al voto. C’è tantissimo lavoro da fare, noi nel nostro piccolo cerchiamo di contribuire. Ora questa è la Settimana d’azione contro il razzismo, culmina il 21 che è la Giornata internazionale contro il razzismo e io sarò in Campidoglio questo venerdì per presentare in diretta su Radio Radicale una maratona che va dalle 10 del mattino fino alle 17 circa, un evento che è stato organizzato in collaborazione con Black Italians e Davide Valeri ed è un evento in cui ci sono diversi panel a cui partecipano tutti i membri della comunità afrodiscendente italiana per parlare di vari argomenti, quindi dall’importanza della presenza di eroi piuttosto che eccellenze della storia italiana, dall’antica Roma a oggi, piuttosto che per parlare dell’importanza di un linguaggio che sia inclusivo e rispettoso nei confronti delle persone straniere piuttosto che di rappresentazione all’interno dei mass media nel mondo dello spettacolo”.

Danila Muzzi

“Si scrive Ali ma si pronuncia Alì”

Danila Muzzi, autrice e regista del corto documentario “Ali”

Come nasce questo progetto che prende forma dalla storia di Ali? “Si pronuncia Alì e si scrive senza accento come volare, è una frase che mi ha detto Ali che mi ha colpito. Nasce da una chiacchierata che abbiamo fatto in cui lui ha raccontato la sua storia, da dove viene, il suo Paese, e poi si è soffermato su un particolare che mi ha colpito tanto da decidere di scrivere un documentario su di lui, cioè lui mi ha detto che il motivo principale per cui ha deciso di lasciare tutto e mettersi in viaggio a quindici anni attraverso mezz’Europa, con le difficoltà del caso, è stata la ricerca di un sorriso libero. Quando mi ha detto queste parole mi sono venuti i brividi e ogni volta che lo ripeto è la stessa cosa perché in quel momento lì ho pensato che qualcosa che ho sempre reputato comunque innato, spontaneo come un sorriso, lo facciamo da quando nasciamo, da quando siamo neonati, possa in alcuni casi e per alcune persone non essere così scontato. Quindi ho pensato che in una società in cui raccontiamo storie di persone che fanno grandi cambiamenti, decidono di intraprendere carriere per soldi, per successo, per posizione, quanto possa essere stato potente la ricerca di un sorriso per questo ragazzo. Quindi da lì ho deciso di raccontare la sua storia”. Ali di dov’è? “È del Pakistan, della zona del Punjab, un paesino che si chiama Muridke, che è un villaggio. Nel corto c’è il suo racconto di questo villaggio fatto di case con tetti aperti dove era solito trascorrere le notti per rinfrescarsi. Nella sua memoria, tra i ricordi più belli, ci sono questi cieli stellati in cui già da piccolo si perdeva. Ali è molto sensibile e già da piccolino sognava come poter immaginare anche una vita diversa rispetto a quella che poteva essere prospettata nel suo Paese”. Su cosa punta il racconto di “Ali” basato sulla vita di Alì Bhatti che, come allievo attore del laboratorio teatrale interculturale “Oltre i Banchi”, portò in scena il monologo “Amido”? “Il primo incontro con Ali è stato anni fa quando ancora non avevo in mente di fare un documentario. Mi era rimasta nella memoria la spontaneità e l’umanità, pur non essendo lui un attore. Era riuscito a restituirmi un momento di umanità molto profonda, rara, che avvertivo al di sotto del palcoscenico. Il taglio del documentario è differente, perché in questo caso, visto che parlavamo appunto dell’importanza del sorriso che c’è sotto, cioè delle emozioni, ho voluto dare un taglio di quel tipo, restituendogli quello che lui è riuscito a conquistare adesso, cioè proprio il sorriso. Per cui ho provato, e spero di esserci riuscita, a raccontare la sua storia partendo dall’oggi, anche se facciamo dei tuffi nel passato per capire la motivazione, cosa lui ha deciso di portarsi dietro dalla sua storia. Quindi viene narrato non tanto quello che ha lasciato, ma quello che fa parte del suo essere qui oggi alla ricerca dei suoi sogni. La differenza fondamentale dal testo teatrale è proprio questa: il desiderio di raccontare una storia presente, anche in una struttura particolare, che è quella del corto documentario e la scelta di farlo al di sotto dei 15 minuti che tiene proprio conto della tensione. Per cui per me lo scopo è di restituire una storia reale, restituire una scelta importante che era quello della fuga motivata da un obiettivo, secondo me meraviglioso, che è quello appunto di poter esprimere sé stessi attraverso la cosa più semplice, cioè il sorriso, e creare l’opportunità, attraverso questi dodici minuti, non solo di riflessioni, ma anche di dibattito. Quindi, anche un modo veloce per far girare il corto documentario che racconta la sua storia che può ispirare non solo chi decide di fare la sua scelta, ma soprattutto una generazione che dà un po’ tutto per scontato, almeno questa è l’impressione che io ho, e quindi di poter dare l’opportunità di fermarsi un secondo a valutare il proprio presente e capire quali sono le cose per cui vale la pena battersi nella vita”. Quale messaggio vuole trasmettere nella Giornata contro le discriminazioni? “Il messaggio è che l’opportunità è trasversale e che, soprattutto, ognuno di noi nasconde dietro una storia, dietro una lingua che tante volte non consociamo, per cui ci schermiamo, qualcosa che ci accomuna. Quindi il messaggio che vorrei dare è come è improntata proprio la Giornata, cioè di andare oltre le apparenze, cercare di dedicare anche soli cinque minuti, o fossero appunto dodici, a conoscere altre persone, perché quello che io ho sperimentato con Ali e con altri ragazzi che fanno una scelta simile, è quello che oltre alle apparenze, oltre i primi minuti, si trovano sicuramente delle analogie con le nostre vite, che si possono motivare non solo a capire meglio loro, ma a capire meglio noi e, quindi, trovare un ponte che ci avvicini”.

Ali Batthi e la locandina del corto documentario “Ali”

“Da piccolo vedevo i film inglesi, e, quindi, alcune situazioni in un modo o nell’altro già me le immaginavo”

Ali Batthi, attore

Il mio arrivo in Italia è stato per me una sorpresa, perché non pensavo di arrivare qui, è stato un caso. Trovarmi in Italia all’improvviso, passando da una cultura all’altra, è stato, in realtà, non molto strano perché io, comunque, da piccolo vedevo i film inglesi, e, quindi, alcune situazioni in un modo o nell’altro già me le immaginavo. Mi sono immaginato molte opportunità e, allo stesso tempo, molte difficoltà, però per fortuna vedevo più le cose positive che negative. Non è di certo stato facile, però io per fortuna ho trovato delle persone che mi sono state accanto, che mi hanno dato una mano a superare le difficoltà e a vedere le cose sempre dal lato positivo e poi, grazie anche al teatro che ho fatto, sono riuscito ad integrarmi nella cultura e a capirla”. L’esperienza sul set “Ali”. “La mia esperienza sul set è stata davvero molto, molto bella. Era la prima volta che qualcuno mi faceva delle riprese, un cortometraggio, un video in cui mi desse l’opportunità di parlare della mia vita, delle mie cose personali, delle cose della mia vita, quelle belle, quelle brutte e tanto altro e, quindi, è stata sorprendente questa esperienza sul set e sono molto contento di averla fatta”.

Grazia Sgueglia nella foto di Manuela Giusto

“Gli stereotipi vanno abbattuti con il racconto della propria storia”

Grazia Sgueglia, organizzatrice del Laboratorio Teatrale “Oltre i Banchi”

Il Laboratorio interculturale ‘Oltre i Banchi’ nasce cinque anni fa, siamo un gruppo di persone e di associazioni che si sono unite e l’hanno un po’ inventato. È nato da un progetto finanziato dal bando Migrarti del Ministero dei Beni culturali nel 2017, ma poi negli anni successivi ha agito in autonomia. Il Laboratorio tratta tematiche di inclusione sociale, di integrazione, ma in generale vuole fare del teatro uno strumento di dialogo e di conoscenza, di esperienza, di opportunità, anche per molti ragazzi che magari non hanno la possibilità di iscriversi a un corso di teatro. I nostri partecipanti ideali sono coloro che magari non hanno la possibilità di fare teatro pagando una retta, soprattutto se sono migranti, oppure orfani non accompagnati, e trovare attraverso il teatro un modo di esprimersi, di parlare, di imparare e di conoscersi. Lo staff è composto da quattro figure: c’è una mediatrice culturale Cristiana Russo, c’è una formatrice Interculturale che è Cinzia Sabbatini, c’è il regista, Mauro Santopietro, e quindi io che mi occupo appunto del coordinamento, dell’organizzazione del Laboratorio. La nostra peculiarità è che non vuole essere un corso di teatro propriamente detto; infatti, non facciamo corsi di dizione o di impostazione della voce, per esempio, ma concepiamo il teatro come un mezzo, uno strumento, per parlare di alcuni temi. Negli ultimi anni stiamo lavorando su stereotipi e pregiudizi, i ragazzi fanno un percorso molto lungo di approfondimento su che cosa sono gli stereotipi e tutti i pregiudizi che possono nascere da alcuni stereotipi culturali e da quelli, poi, traggono i loro monologhi che restituiscono al pubblico durante il saggio. Lo scopo è che la conoscenza porta il superamento dei pregiudizi; è un lavoro che fanno sia internamente durante le ore di lezione, quindi all’interno delle loro dinamiche di gruppo, sia poi col confronto con il pubblico. È questo un po’ il nostro intento, per questo abbiamo la peculiarità di avere anche una mediatrice culturale e una formatrice interculturale nello staff perché l’elemento interculturale è fondamentale, quasi predominante, soprattutto negli ultimi anni”. “Oltre i Banchi”. “Il primo spettacolo che abbiamo allestito si intitolava ‘Banchi’, era ispirato a ‘Nemico di classe’ di Nigel Williams ed era ambientato in una classe scolastica, quel testo era solo un punto di partenza, era stato soltanto letto durante il Laboratorio, il nostro spettacolo era completamente diverso. In seguito quando abbiamo deciso di continuare l’esperienza del laboratorio, anche insieme a ragazzi che avevano partecipato abbiamo deciso di chiamare il progetto del laboratorio ‘Oltre i Banchi’, perché aveva tanti significati: proseguire oltre il primo anno, ma anche fare formazione oltre i banchi di scuola, banchi possono essere i muri che il mondo, la società può erigere tra una categoria e un’altra, oppure andare oltre le separazioni, le differenze che ci possono essere nella società, in linea con il discorso di inclusione sociale e di scambio, di comunicazione che noi vorremmo incentivare con il nostro piccolo Laboratorio. Banco anche come barricata, oltre la barricata che uno può creare nel proprio fortino e non avere dialogo con gli altri. Sono un po’ di anni che lavoriamo a Tor Pignattara e ci appoggiamo al Teatro Studio Uno, un teatro che abita il territorio da ormai più di quindici anni ed è diventato un po’ la nostra casa per le prove, dove abbiamo fatto anche lo spettacolo l’anno scorso. Tre anni fa siamo stati ospitati dalla Scuola Pisacane, famosa per essere una scuola a forte densità multietnica”. Le storie dei ragazzi sotto i riflettori di un palcoscenico. “Ne cito alcune. Marielle, al secondo anno, scrisse un monologo. Lei è una ragazza di seconda generazione, non è una ragazza migrante, però, non avendo i documenti doveva rinnovarli ogni anno. Lei è stata forse la prima che ha scritto un monologo da sola nel nostro laboratorio. Nel monologo Marielle raccontava l’andata alla Questura ogni santo anno per rinnovare i documenti e come il poliziotto di turno le indicava il dito indice, medio per le impronte digitali, come se lei non capisse l’italiano mortificandola, considerando che lei è cresciuta in Italia, è italiana; lei fu la prima che si mise in gioco. Poi c’è Destiny che è arrivato in Italia attraversando il mare dalla Libia. Lui è nigeriano e ha raccontato in un monologo il suo viaggio. Ha fatto grande fatica a raccontarlo, non voleva. Lo abbiamo quasi un po’ forzato, forse anche sbagliando, lo ammettiamo, però è stato un momento molto toccante perché lui poi alla fine ci ha provato e ha raccontato la paura che aveva delle onde, ma anche la bellezza in alcuni momenti del mare, l’alba, il tramonto o una tartaruga che girava intorno alla barca. La parte più interessante è quando i ragazzi si spogliano un po’ delle loro paure e raccontano e riescono a raccontare. Poi, c’è Aziz, un ragazzo laureato, fisioterapista, affermato, che racconta: ‘A me spesso mi ferma la polizia e mi controlla i documenti, perché ho origini tunisine”. Anche lui è un ragazzo di seconda generazione, un italiano. Vive la società in maniera pacifica; eppure, ha continuamente il promemoria delle sue origini dalle forze dell’ordine che lo fermano senza apparente motivo. In cinque anni di laboratorio, c’è tanto da dire sui ragazzi. Io sono molto affezionata a loro, per me è una passione, noi non abbiamo un indotto, è una scelta voler fare questo laboratorio, vorremmo ingrandirci, però è anche bella questa gestione quasi familiare. Ce ne sarebbero tante di storie”. Grazia Sgueglia ha fondato la Spring con lo scopo di produrre in maniera indipendente progetti che spaziano dal teatro all’audiovisivo nel 2012, innestando questo filone interculturale “Oltre i Banchi” dal 2017. “Per il progetto quest’anno di ‘Oltre i Banchi’ abbiamo il sostegno dei fondi 8×1000 della Chiesa Valdese. Il laboratorio è in corso, abbiamo iniziato a gennaio e faremo il saggio a giugno. Il tema è il mettersi in gioco affrontando gli stereotipi e i pregiudizi di cui si è portatori e l’obiettivo è di sensibilizzare il pubblico che verrà ad un maggiore approfondimento di alcune dinamiche che lo stereotipo crea. Faccio un esempio. C’è Sonia che è una ragazza di origini capoverdiane, ma italiana, a cui un automobilista per insultarla le ha detto: ‘Tornate in Eritrea’. E lei ha urlato: ‘No, io sono di Capoverde!’. Per dire anche semplicemente accomunare tra loro gli stati dell’Africa come se fosse tutta un’unica nazione e non riconoscere le differenze tra le varie nazioni che la compongono o pensando che qualunque persona che abbia la pelle scura sia un immigrato. Insomma, tutti questi stereotipi possono essere abbattuti se ti racconto la mia storia”.

Un gruppo del Laboratorio teatrale “Oltre i Banchi

Concludendo…

Dall’esperienza di un disastro umano durato troppo a lungo, deve nascere una società di cui tutta l’umanità sarà fiera”, diceva il 10 maggio 1994 a Pretoria Nelson Mandela nel celebre discorso d’insediamento a presidente del Sudafrica, mettendo fine all’apartheid dopo i suoi 27 anni di prigionia. “Affronteremo la sfida di costruire una società pacifica, prospera, non sessista, non razzista e democratica”. Poi, sottolineò un impegno che dovrebbe valere per tutte le nazioni: “Assumiamo ufficialmente il compito di costruire una società in cui tutti i sudafricani, neri e bianchi, potranno camminare a testa alta, senza alcun timore, certi del loro inalienabile diritto alla dignità umana”.

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