Maximilian Nisi: “Quando non ho un personaggio da indossare sono solo”

Il teatro ci è stato dato nelle nostre mani, dobbiamo trovare il modo di conservarlo, dobbiamo prendercene cura in questo momento che è profondamente malato come tutto il resto del mondo. Dobbiamo proteggere il mondo e noi, in particolar modo, il teatro” sono le parole accalorate con cui si congeda l’artista Maximilian Nisi prima di riprendere le prove dello spettacolo “A spasso con Daisy” alla vigilia del debutto al Teatro Ciak di Roma (anteprima nazionale sabato 22 e domenica 23 gennaio). È il giusto epilogo ad un’intervista cominciata con la riflessione sulla “possibilità negata di proiettarsi nel futuro: la nostra vita è stata momentaneamente congelata, adesso stiamo aspettando che si scongeli come quando tiri un alimento fuori dal freezer e devi dargli tempo”. Classe 1970, attore e regista teatrale fiero del diploma conseguito alla Scuola del Teatro d’Europa di Milano diretta da Giorgio Strehler, Maximilian Nisi è pronto per andare in scena come Boolie nel ruolo che fu di Dan Aykroyd nel film 4 volte Premio Oscar diretto da Bruce Beresford, tratto dal testo di Alfred Uhry, Premio Pulitzer per la Drammaturgia nel 1988. Accanto a Nisi sul palcoscenico ci sono Milena Vukotic, nei panni dell’anziana signora Daisy, e Salvatore Marino, in quelli dell’autista.

Maximilian Nisi, com’è cambiato negli anni essere attore e regista? Rifaresti questa scelta oggi?

Mi diverte il mio lavoro, mi piace. Tante volte dico che sono stufo e mi piacerebbe cambiare rotta, ma non saprei sinceramente cos’altro fare, e non perché io abbia una considerazione alta di me. Penso di essere un artigiano, una persona che tende a migliorarsi regolarmente e chi mi conosce lo sa. Però mi piace quello che faccio. Anche nel periodo di chiusura, ricevevo testi, studiavo, immaginavo, leggevo. Mi accade adesso come quando avevo vent’anni ed ero all’università a Economia e commercio, ho fatto anche Giurisprudenza, io compravo numeri di Sipario, Prima Fila, Flash Art e i miei colleghi prendevano Mondo & Finanza. Io credo che sia una questione di genetica. Io adoro il mio ambiente, non ho nessun tipo di problema ad essere a teatro al mattino alle 8 in una località balneare e starci dentro fino alle 2 di notte, non mi manca la luce, anzi mi rendo conto che anche la mia vita si è un po’ trasformata come il mio lavoro: ho luci molte basse, ho bisogno di colore, amo la musica… È come se continuassi a vivere non in maniera teatrale, ma salvaguardando cose che nel mio lavoro devono esserci e nella vita spesso mancano, non sono più considerate tanto importanti e invece per me sono fondamentali. Se non avessi tutte queste cose penso che sarei una persona fondamentalmente infelice alla ricerca poi di altro. Schopenhauer diceva che le arti ti danno la possibilità di sublimare, forse è questo. Brecht diceva che l’arte tende a migliorare la vita, e questo è. Trovo che la mia vita sia sicuramente più bella grazie al lavoro che faccio. È un lavoro difficile, complicato, con tante contraddizioni, fatto anche di calci in faccia, però va bene così, è uno di quei rapporti d’amore incondizionato e quindi accetti tutto quello che ti arriva, anche perché quello che hai di rimando è comunque molto forte e molto piacevole, almeno per me. Il teatro è stata una scelta proprio di passione, una scelta consapevole e una vocazione, una scelta di vita grande, perché poi inutile stare a dire la vocazione, sei un esaltato, no, per me la vocazione è una cosa che con il tempo si evince. Ho la vocazione, faccio il teatro, no. Tu hai fatto il teatro e quindi hai avuto la tua vocazione, cosa che col tempo capisci se ce l’hai o non ce l’hai. Le scelte sono radicali. Il teatro non è una vita semplice, è anche una vita molto di solitudine, ma anche molto bella perché hai un bel rapporto con te stesso e fai tante cose belle. È vero quello che dice Milena: il nostro è un lavoro privilegiato comunque”.

Hai preparato qualche testo in particolare in questo periodo?

Leggo tanti testi perché sono sempre alla ricerca del tesoro… Leggo per cercare stimoli e poi soprattutto progetti in cui mi posso tuffare. Io sono scritturato spesso, però è anche vero che se guardo il mio curriculum ci sono tanti spettacoli realizzati per mia volontà perché ho trovato delle produzioni, ho contattato degli attori, dei festival. Sono stato ‘organizzatore’ dei miei sogni ed ho realizzato, ad esempio, ‘Visiting Mr. Green’, ‘Un autunno di fuoco’ con Milena, ho celebrato Harold Pinter quando vinse il Nobel (per la letteratura nel 2005, ndr). Mi sono creato delle opportunità belle di lavoro, delle isole felici. Leggo testi per questo motivo. Il ‘Giuda’ stesso che ho fatto durante il periodo del lockdown, che è un monologo – io abitualmente non faccio monologhi -, era un modo come un altro per continuare a tenere la mente impegnata. Io ho bisogno di mettere i miei pensieri da qualche parte, ho bisogno di avere in bocca parole di qualcun altro. Lo dicevo ieri sera alla costumista di ‘A spasso con Daisy’ che io sono felice, in questo momento, perché so come mi devo vestire, so come mi devo pettinare. Noi viviamo molto nei nostri personaggi e quando non abbiamo un personaggio da indossare siamo soli, siamo un pochino più soli, allora siamo degli sfollati, non sai dove devi andare, non sai come ti devi vestire… Quindi i personaggi che interpreti ti risolvono l’esistenza in qualche modo, ti fanno pensare, ti portano da qualche altra parte e quindi hai delle problematiche diverse, sei molto ricco quando magari nella tua vita normale sei povero, sei molto povero quando invece sei ricco, puoi avere tanti amori quando nella vita magari non hai amori, cioè voglio dire sublimi moltissimo, esorcizzi tanto, hai un grandissimo aiuto che non trovi altrove”.

Il tuo prossimo personaggio, Boolie, è molto vicino al modello di Dan Aykroyd del film di Bruce Beresford?

No, non avrebbero scelto un attore come me. Noi dobbiamo essere molto onesti come interpreti. Quando ero giovane pensavo che un attore potesse fare tutto, ma non è vero. Noi siamo legati al nostro corpo, al nostro aspetto, ed anche alla nostra vocalità. Posso pensarmi diversamente perché i personaggi li porti addosso, come diceva Strehler i personaggi vivono in un limbo e tu ti rechi verso di loro e se sei fortunato li incontri a metà strada, però devi portarteli addosso, perché sarebbe poco interessante il lavoro creativo che poi svolgi. Quindi il mio Boolie è più nervoso, è più magro, però è anche vero che è mammone, è sottomesso alla moglie. Poi, c’è l’incontrarsi a metà strada: uso una tonalità di voce che non ho mai utilizzato per altri personaggi. Quando lavoro sul personaggio a volte ho delle gestualità che mi sorprendono, quando poi in realtà incominci a conoscere il tuo personaggio più a fondo a un certo punto la cosa ti prende la mano e ti induce a fare anche delle piccole cose che non sono quelle che avresti fatto con un altro personaggio. Questo è quello che normalmente accade. Il personaggio del film è giustissimo, i tre attori sono strepitosi (Jessica Tandy è Daisy Werthan, Morgan Freeman è Hoke Colburn, Dan Aykroyd è, appunto, Boolie Werthan, ndr), il film è davvero molto bello, però non mi sono ispirato a Dan Aykroyd, ma non per mancanza di stima, ma semplicemente per consapevolezza. Inoltre, il personaggio di Boolie è più presente che nel film, perché nel film ovviamente essendoci altri personaggi, essendoci la possibilità di dare dei campi lunghi della città di Atlanta e raccontare delle cose anche con altri immagini non è necessario avere una presenza così forte. Invece in teatro va da sé che è un gioco delle tre carte, due, uno, per dare la possibilità agli altri attori di cambiarsi, per far passare le epoche, perché c’è un percorso di tempo di vent’anni. Tutto ciò dà la possibilità anche al personaggio di Boolie di avere una presenza maggiore e soprattutto uno sviluppo drammaturgico che nel film poco c’è oppure che è stato risolto con delle immagini, non con dei dialoghi. Magari c’è l’immagine di lui che va alla festa vestito da carnevale, cosa che nel testo teatrale non c’è. È un’unica immagine dalla quale si capisce che tipo di vita svolge lui con questa moglie ingombrante, questa Florine che lo obbliga a fare tutte le cose più stupide e futili del mondo, a discapito di una madre che avrebbe bisogno che il figlio fosse più presente”.

Alla luce di ciò, sull’adattamento del testo ad opera di Mario Scaletta, che lavoro hai fatto con il regista Guglielmo Ferro?

Ho visto già dei lavori di Guglielmo in passato e mi ha sempre intrigato perché ho riconosciuto nel suo lavoro il concetto del teatro come lo conosco io, il teatro che noi attori vogliamo fare e il pubblico vuole vedere, perché non sempre gli attori vogliono fare un certo tipo di teatro e non sempre quello che vogliono fare gli attori il pubblico lo vuole vedere. Guglielmo fa un teatro che un attore ha il piacere di fare e il pubblico ha il piacere di vedere, innanzitutto perché è molto rispettoso del tuo percorso creativo. Non è invasivo, ma questo non vuol dire che sia assente, vuol dire che dice quello che va detto nel momento necessario in cui va detto, cose che non sono mai casuali e sono spesso molto più profonde di quello che potrebbero sembrare. Sicuramente il suo lavoro è anche ritmico, nel senso che lui cerca di mantenere una ritmica elevata, ma anche Gabriele Lavia richiede questa cosa qui di non far mai scendere la tensione e soprattutto musicalmente di mantenere determinati canoni. Il lavoro che abbiamo fatto sul personaggio è stato a tappe. Guglielmo non è una persona che parla moltissimo, è una persona che agisce sul campo in maniera molto artigianale e precisa. Si capisce che lui ha respirato teatro da piccolo e che quindi il suo modo di comunicare è teatrale. Di fatti l’incontro che io ho fatto con Guglielmo per il ruolo – anche se lui aveva visto spettacoli fatti da me precedentemente ma o non ricordava oppure aveva bisogno di vedere come io fossi in quel momento – è stato molto bello, ma non è che mi ha fatto un provino. Abbiamo letto il testo e credo di non averlo letto neanche bene, facevo altro in quel periodo, però è stato proprio un bellissimo incontro umano. Questo mi ha ricordato un certo tipo di teatro che purtroppo non c’è più. Io ho cominciato negli anni Novanta a fare teatro e c’era un certo tipo di etica teatrale, un certo tipo di linguaggio teatrale, un certo tipo di educazione teatrale e Guglielmo queste cose le ha e mi piacciono moltissimo e sono felice di fare questo lavoro che sto facendo con entusiasmo in maniera serafica, perché lui è un regista che ti fa star bene, mi sento capito, compreso e incentivato. Certo, alle volte mi dice anche che delle cose che io ho proposto non gli andavano bene, però ho capito per quale motivo non gli andassero bene. È un rapporto risolto, non è un regista dalle mille parole, di concetti astratti, ti lascia grande libertà però ti conduce per il percorso in maniera molto saggia, e quindi io credo che lui abbia proprio una conoscenza profonda. Ricordiamoci che è figlio di uno dei più grossi attori (Turi, ndr) che abbiamo avuto nel Novecento”.

Qual è il tuo rapporto con Milena Vukotic e Salvatore Marino?

Io ho già fatto con Milena ‘Un autunno di fuoco’ di Coble, prima del lockdown, e abbiamo convissuto per molto tempo insieme ed è un rapporto molto bello, c’è un grosso ascolto, è un bellissimo rapporto sia nella vita normale, sia in scena. Mi piace lavorare con Milena, ho grande rispetto della sua professionalità, anche soprattutto della sua storia teatrale e non soltanto, sto bene con lei. Salvatore è un attore differente che viene da altre esperienze, però stiamo trovando un linguaggio comune. Lui è un attore abituato a fare cose diverse, tanti monologhi e devo dire che ha delle note drammatiche molto interessanti, malgrado forse non siano mai state utilizzate se non in un film. Siamo diversi di esperienza, ma la cosa bella che accade in una compagnia è che nel momento in cui gli ingredienti vengono mescolati per bene e messi bene insieme sono indispensabili tutti. Quindi adesso in compagnia ci siamo conosciuti, capiti, ascoltati che è la cosa più importante e adesso partiremo per la nostra tournée. È un bellissimo rapporto, d’altra parte siamo in tre, non sarebbe concepibile una situazione non armonica fra di noi. E devo dire che sia il regista sia la produzione hanno scelto credo correttamente, perché fino a questo momento siamo andati perfettamente d’accordo. Abbiamo lavorato in grandissima serenità. Salvatore ha una pacatezza che non è molto italiana, probabilmente quel 50 per cento di africano che lui ha si vede. Milena è la più giovane di noi tre e la più attiva in un certo senso, forse è anche la più generosa, va sempre considerato quanto lei si spenda sia per il lavoro che per i suoi colleghi, è una bellissima presenza, una grande professionista”.

Pronti per la tournée, quindi, dopo le due date del Ciak di Roma?

Abbiamo quasi due mesi e mezzo di spettacoli, Covid permettendo. Noi siamo vaccinati con i nostri tamponi regolari, partiremo, speriamo di non avere problemi di positività in compagnia. Due mesi e mezzo di tournée in questo momento sono molto rari, facciamo soprattutto però città piccole dove non è che abbiamo una presenza di più giorni, a parte Torino (dove stiamo tre giorni) e Novara (dove stiamo due). Non siamo tipo a Roma una settimana, a Bologna un’altra settimana, due settimane a Firenze, queste sono città che sono previste per il prossimo anno. Questo perché in una città dove tu arrivi e fai un’unica data, due date, hai quasi la certezza che le persone che vogliono venire a teatro verranno e che non ci saranno decurtazioni di persone positive, senza green pass, altrimenti diventava una tournée rischiosa. La tournée è stata organizzata in modo molto lungimirante e intelligente, perché la piccola città forse ci dà la possibilità di fare tutte le piazze previste. Il prossimo anno è in programma una tournée maggiore, faremo Roma, Milano, la Sicilia, ci saranno più piazze e di tenitura più lunga. Questa tournée di due mesi e mezzo è soprattutto al Nord, quindi dalle parti di Venezia, Monza, la Liguria, poi saremo tantissimo in Toscana, un po’ in Emilia-Romagna, andiamo a Locarno in Svizzera, facciamo un bel giro. Partiamo martedì 25 e cominciamo dalla Toscana, poi saliamo verso Milano, il Veneto e in Piemonte”.

Mi centri l’attualità e la verità del testo “A spasso con Daisy” ambientato ad Atlanta negli anni Cinquanta?

È un testo che parla di discriminazione multirazziale, pensa a quanto siamo ancora limitati nei confronti del diverso in generale. Qui c’è la diversità del nero, la diversità dell’ebreo e poi soprattutto è molto particolare perché l’ebreo prova nei confronti della persona di colore una forma di discriminazione leggerissima e l’uomo di colore dice che lui ama gli ebrei e non pensa che gli ebrei abbiano quello che in realtà gli altri pensano. Quindi, malgrado loro siano discriminati, mettono le mani avanti per dire che loro non discriminano, questa la dice lunga sulla natura dell’uomo che è quella di oggi. C’è sempre un Sud, quello che ha la pelle diversa, qualcuno che è discriminato adesso anche per motivi differenti, non soltanto per il colore della pelle ma anche per il ceto sociale, le scelte sessuali. Poi, c’è il divario generazionale madre/figlio, lo scontro generazionale e poi ci sono le solitudini. Daisy è un’anziana signora, una maestra in pensione, ma è molto sola e si lega al suo autista perché il figlio non ha tempo per lei, è un uomo in carriera. È una commedia molto semplice, veloce, nell’arco di un’ora e venti si sintetizzano venti anni di storia. Mi rendo conto che è una commedia attuale perché ci sono quelle dinamiche che esistono in tutte le famiglie: una mamma che vuole ragionare di testa sua, il figlio che ha poco tempo per lei e che allora delega ad una terza persona che se ne deve occupare, una madre che punta i piedi perché non vuole essere gestita da un figlio che la deve gestire. C’è tutta una serie di cose, la solitudine, la discriminazione, c’è anche il concetto dell’analfabetismo con Hoke che non sa leggere e non sa scrivere. Non è che sono temi che sono affrontati in una maniera proprio sociale, sono caratteristiche di vita che si possono percepire anche nella quotidianità di oggi, non è cambiato molto. Quando un testo racconta l’uomo con le sue passioni e propensioni, l’amore e l’odio, è universale, non è legato ad un periodo storico preciso. ‘A spasso con Daisy’ penso possa essere rappresentata anche fra cento anni, però la devi rappresentare in questo periodo con questi costumi, questa modalità, ma non perché la tematica non è attuale ma perché il fatto di far vedere che quello che accadeva negli anni Cinquanta è esattamente la stessa cosa che accade oggi è quello che rende attuale un testo, altrimenti uno dice: ‘vabbè lo stanno raccontando all’oggi chi se ne frega’. Se fai un Goldoni e le problematiche di Goldoni sono le stesse nostre, che parla di attori che non riescono a lavorare, di produttori lazzaroni che non li vogliono pagare, tutte cose che possono succedere in compagnia, se tu fai quel Goldoni in veste moderna si dice ‘vabbè sono così gli attori oggi’, no, è moderna e attuale un’opera di Goldoni se tu la rappresenti con i costumi del Settecento e fai vedere alle persone che dal Settecento ad oggi non è cambiato assolutamente niente, allora l’opera diventa attuale e può essere eterna in qualche modo perché sono cose che riguardano l’uomo. Shakespeare è così, i classici greci sono così, sono le opere più attuali in assoluto perché parlano dell’uomo e delle passioni dell’uomo in primis, non parlano di una società come Pirandello”.

È una commedia, ma c’è una frase che ti emoziona pronunciare?

No. Se l’emozione può essere anche il divertimento, allora sì. Ci sono diversi punti dello spettacolo che mi divertono. Questo è un personaggio che mi deve divertire, altrimenti non riuscirei a farlo. Se a volte io penso a Boolie mi viene da ridere. Lo trovo cretino e devo pensarla così perché non posso prenderlo sul serio; se lo prendo sul serio, non riuscirei a disegnarlo, mi affezionerei a lui, alle sue problematiche. Ma non me ne frega niente di quali possano essere le problematiche sue. Per me Boolie è un mammone abbastanza superficiale. Ho in mente delle persone che ho incontrato nella mia vita alle quali faccio riferimento nel mio cervello e mi fa molto ridere, mi dà allegria. Mi emoziona nel senso che mi fa ridere, e la risata è un’emozione forte. Il discorso della fine della vita no, perché comunque Daisy anche nell’epilogo della sua vita, nell’ultima parte, è una donna viva e la vita termina ad un certo punto e quindi lo accetti. Quindi il fatto che possa ancora essere ironica in quella situazione e possa dire delle cose è ben sperante, è una donna che ha fatto una bella vita. Racconta che ha sofferto, che non avevano da mangiare ed erano poveri, però la sua vita si è risolta in qualche modo. Quindi, no, niente emozione, nel senso di divertimento, invece, sì, ma nei confronti di me stesso, del mio personaggio per quanto possa essere un sociopatico, un personaggio particolarissimo. Non so come verrà preso. Un personaggio è un po’ come una torta: la inforni dopo averla lavorata con grande dedizione e bisogna vedere se l’hai amalgamata bene e che gusto ha, se dolce, se salata”.

Mi lasci con una frase che è una sorta di mantra per te?

C’è una frase di Brecht che usava spesso Strehler. Ne ‘La vita di Galileo’ alla domanda di Galileo ‘Com’è la notte?’, Virginia risponde ‘Chiara’. L’ho risentita nel documentario ‘Strehler, com’è la notte?’, visto su Rai3 il pomeriggio di Capodanno. Mi è piaciuta come frase, perché siccome stiamo vivendo un momento di buio, ma non soltanto per il Covid, anche culturale, umano, storico, basta aprire un giornale…, il fatto di poter pensare che anche di notte tu possa avere quel senso di luce è una speranza che in questo momento mi va di nutrire: avere luce in un momento di oscurità, la luce che ci auguriamo tutti che ci possa essere anche nel dopo vita, perché in questo momento noi siamo in vita però è come se fondamentalmente sia per i nostri sensi sia per la nostra mente, il nostro cuore, siamo momentaneamente morti in qualche modo, non trovo una grande evoluzione nei confronti della cultura, e del bello in generale. Strehler anche dall’al di là continua a darci risposte di bellezza e di salute spirituale e quindi ci ho pensato lungamente e me la sono tenuta per me. Questa frase è il mio mantra di questo momento e te lo regalo”.

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