“Memorie di un assassino”, il poliziesco di Bong Joon-ho che fa provare allo spettatore la stessa rabbia e frustrazione degli investigatori

Pietrificati, immobili, con l’amaro in bocca… Sui titoli di coda si alzano le luci e tu spettatore sei ancora lì a guardare quella campagna così splendente al sole e che, inondata di pioggia, si porta con sé corpi di donne violentate e uccise con i loro stessi indumenti. Tu spettatore provi l’uguale frustrazione di investigatori che lottano contro un killer seriale che non lascia alcuna traccia di sé sul luogo del delitto, neanche un pelo pubico. Nella squadra speciale di polizia contro i crimini violenti s’innesca un confronto tra chi ha metodi istintivi e chi cerebrali. Dopo “Parasite” in odore di Oscar e che torna in sala dal 6 febbraio, Academy Two porta al cinema dal 13 febbraio un altro film di Bong Joon-ho, “Memorie di un assassino”, il suo secondo film edito nel 2003 e che si rifà a fatti realmente accaduti in una piccola città fuori Seul negli anni Ottanta. Il film ti tiene incollato alla poltrona per 131 minuti con addosso la sensazione di un mondo ruvido, fatto di sangue, polvere, sudore e sudiciume. Un mondo dove i media sono onnipresenti e anche loro impotenti come gli investigatori. Un mondo che vive tra cure di medici senza laurea, influssi di veggenti e mancanza di strumenti scientifici all’altezza per il caso. La differenza tra “Memorie di un assassino” e gli altri film drammatici di genere poliziesco è che “gli investigatori sono ritratti come veri esseri umani, dotati di un loro arco emotivo”, come osserva Bong Joon-ho. Nel film nulla è patinato, ma tutto è disperatamente realistico, anche le emozioni.

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