“Hammamet”, il film sul “caso C.”: quando la giustizia ingombra i sogni

Sulla carta è un film assolutamente da vedere “Hammamet” (nei cinema dal 9 gennaio): per la regia di Gianni Amelio, Pierfrancesco Favino veste i panni di Bettino Craxi negli ultimi giorni della sua vita. Si racconta la caduta di uno statista? Gianni Amelio mette le mani avanti: ci “si concentra più sull’uomo che sul politico”. Si raccontano le emozioni e le azioni di un uomo, vero, però che gioca col nipote costantemente a “comandante” e “generale”, un uomo che tutti chiamano “presidente” e si muove costantemente con la scorta, un uomo che si lascia a riflessioni continue sulla politica che ha fatto e che vede fare con una presenza costante della giustizia, una giustizia che gli ingombra i sogni quando comincia a sedere in Parlamento. La posizione di Amelio sulle due condanne passate in giudicato su di lui? “Non penso che lo si potesse definire un ‘latitante’. Tutti conoscevano il suo domicilio, tutti sapevano dove trovarlo. Non sono mai andati a prenderlo, perché non conveniva a nessuno”. Ma a chi conviene oggi questo film? Amelio si è confrontato con la famiglia: la moglie Anna, e i figli Stefania e Bobo. Favino ha sentito “la responsabilità maggiore di non deludere la memoria dei figli” che ha incontrato e conosciuto. Gran parte del film è stato girato proprio nella loro villa di Hammamet con la costante della tv sempre accesa. Il nome Bettino Craxi non viene mai fatto. Si parla solo a un certo punto di “un caso C.” che non è chiuso per bocca del figlio. “È talmente evidente che stiamo parlando di lui che non serve nominarlo”, si schernisce Amelio. Il modello a cui dichiaratamente Craxi è avvicinato è Giuseppe Garibaldi, sin dalla scelta di chiamare nel film la figlia Anita, come l’appassionata Anita Garibaldi. Ma perché il riferimento a Garibaldi? Per il ritiro degli ultimi anni? Perché la sua azione ha diviso e divide? Il film alla fine sembra rientrare nella corrente politica del cerchiobottismo. “Parlo di un uomo potente che ha perso lo scettro, e deve fare i conti con la fine della propria vita, oltre che con quelli lasciati in sospeso con la giustizia. In superficie sfida tutto e tutti, sfodera la sua arroganza, grida le proprie ragioni come se fossero assolute e assolutorie. In profondità combatte contro se stesso. Ma in ogni caso – sottolinea Amelio -, quello che un personaggio esprime non deve necessariamente essere condiviso dal regista”. Con lo sceneggiatore Alberto Taraglio, Amelio ha letto, visto e approfondito tantissimo materiale. Dice: “Non volevo fare un film storico o un pamphlet. Ha un andamento un po’ western, un po’ noir. E vorrebbe, a suo modo, essere un melodramma”. A tratti il film si fa in verità visionario e onirico sulla scia della lezione di Federico Fellini, ma non ne raggiunge l’altezza. Eppure le frecce all’arco di Amelio sono state tante. Il trucco di Favino disegnato da Andrea Leanza è perfetto: e alle cinque ore di make up quotidiane l’attore ha aggiunto un lavoro mimetico su gesti, voce e sguardo dal risultato apprezzabile. Il figlio di Amelio, il direttore della fotografia Luan Amelio Ujkaj, restituisce sul grande schermo la luce giusta ad ogni momento. Poco invece resta dell’opera del grande maestro Nicola Piovani la cui colonna sonora resta ai margini, soverchiata com’è dall’enfasi dell’oratoria di Favino e da alcuni motivetti commerciali. Nulla da eccepire sul cast artistico. Con Favino recitano tutti bene, dai più noti Renato Carpentieri e Claudia Gerini, ai meno conosciuti come la brava Livia Rossi a cui giustamente è affidato il ruolo della figlia Anita.

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