“C’era una volta Sergio Leone”, la mostra all’Ara Pacis di Roma è una lezione di cinema

Un viaggio nell’immaginario e nel laboratorio creativo di un vero Maestro del cinema: al Museo dell’Ara Pacis di Roma dal 17 dicembre 2019 al 3 maggio 2020 c’è la mostra “C’era una volta Sergio Leone”, con cui la Capitale omaggia, a 30 anni dalla morte e a 90 dalla sua nascita, uno dei suoi figli, mito assoluto del cinema italiano. “Non c’è modo più bello per riportare a Roma un romano”, afferma la figlia Raffaella in conferenza stampa, felice con Francesca e Andrea di un’esposizione che celebra l’uomo e il cineasta. Promossa dall’Assessorato alla Crescita culturale di Roma Capitale – Sovrintendenza Capitolina ai Beni Culturali, la mostra arriva in Italia dopo il successo dello scorso anno alla Cinémathèque Française di Parigi, istituzione co-produttrice dell’allestimento romano insieme alla Fondazione Cineteca di Bologna: la visita è qui arricchita di nuovi pezzi, dal pianoforte di casa Leone allo spolverino di Clint Eastwood. La mostra è una lezione particolareggiata sul cinema di Sergio Leone, un cinema fatto di cura del dettaglio e realizzato da chi aveva respirato il dietro le quinte sin da giovanissimo in quanto figlio di un regista ed una diva del cinema muto: Roberto Roberti, nome d’arte Vincenzo Leone, e Edvige Valcarenghi, nome d’arte Bice Waleran. Dal 1912 al 1917 il padre lavora come interprete e poi come direttore artistico per la società di produzione torinese Aquila Films, realizzando feuilleton di successo. Una delle star è Bice Waleran. I due s’innamorano e nel 1914 si sposano (diretta dal marito, Edvige interpreta – fatalità – il ruolo di una principessa indiana nel primo western italiano, “La vampira indiana”, film del 1913, oggi andato perduto). Sergio Leone nasce a Roma all’inizio del 1929. Il padre a quei tempi è capo del sindacato registi cinematografici, anche se, dall’avvento del cinema sonoro, fatica a trovare lavoro. Sergio Leone trascorre l’infanzia a viale Glorioso, strada del quartiere Trastevere che termina con la scalinata che sale a Monteverde. Dopo dieci anni di forzata inattività, Roberto Roberti torna dietro la cinepresa. “La bocca sulla strada” (1941) rappresenta il primo incontro del figlio Sergio con gli studi di Cinecittà. Subito dopo la Seconda guerra mondiale, Leone inizia a lavorare nel cinema grazie alla rete di contatti del padre. Nel 1947, ancora liceale, è assistente volontario di Vittorio De Sica in “Ladri di biciclette” e in una scena del film recita anche nel ruolo di un seminarista. Tra i vari maestri, Leone ha avuto un legame speciale con Mario Bonnard (dal 1949 al 1960 vive in un appartamento nello stabile in cui abita l’anziano regista e da lui eredita l’amore per i dipinti che inizia a collezionare). In questo periodo viene scelto per dirigere le seconde unità di diversi peplum hollywoodiani girati a Roma. Grazie a questo lungo apprendistato, acquisisce una conoscenza tecnica e una maturità stilistica che gli permettono di dirigere con sicurezza, a 32 anni, il suo primo lungometraggio, “Il Colosso di Rodi” (1961). Nell’estate del 1963 è tra gli spettatori romani de “La sfida del samurai” di Akira Kurosawa, ne rimane folgorato e ha l’idea di trasformarlo in un western: inizialmente intitolato “Il magnifico straniero”, “Per un pugno di dollari” esce in sordina il 12 settembre 1964 a Firenze, e il passaparola lo rende uno dei più grandi successi della storia del cinema italiano. Durante la lunga pausa registica – tra “Giù la testa” (1971) e “C’era una volta in America ” (1984, con Robert De Niro che si fa invecchiare, processo inverso a cui l’attore si sottopone nel film di Martin Scorsese “The Irishman”) – Leone divenne produttore realizzando: “Il mio nome è Nessuno” (1973) di Tonino Valerii; “Un genio, due compari, un pollo (1975) di Damiano Damiani; “Il gatto” (1977) di Luigi Comencini; “Il giocattolo” (1979) di Giuliano Montaldo; e tre film di Carlo Verdone (“Un sacco bello” del 1980 e “Bianco, rosso e Verdone” del 1981, nel 1986 collaborò a “Troppo forte”). Grande è l’eredità di Sergio Leone: letteratura, fumetto, serie tv, videogiochi e musica rock, ogni campo della cultura di massa contemporanea, in ogni parte del mondo, sembra prendere qualcosa in prestito da lui (dai Simpson a Westworld, da Breaking Bad a Topolino, dai Metallica ai Muse). Ma Leone non sarebbe Leone senza la musica del compositore e direttore d’orchestra Ennio Morricone. Avevano fatto le elementari insieme, ma si erano persi di vista. Sarà la Jolly Film a farli rincontrare dando il via ad una delle più felici e particolari collaborazioni della storia del cinema. Leone vuole essere ispirato dalla musica e non viceversa. A partire da “Per qualche dollaro in più” chiede a Morricone (che nelle sue composizioni utilizza elementi mediterranei come lo scacciapensieri siciliano) di scrivere la musica prima delle riprese, e i brani registrati sono diffusi sul set per immergere gli attori nell’atmosfera del film e dettare i tempi ai movimenti della macchina da presa. “Direi che se è vero che ho creato un nuovo tipo di western, inventando personaggi picareschi in situazioni da epopea – dichiarò Sergio Leone -, è stata la musica di Ennio Morricone a farli parlare”. I film di Leone sembrano riportare il cinema alle atmosfere del muto: il parlato è ridotto all’osso e la musica acquista un valore narrativo ed emozionale di primo piano. Però anche se i dialoghi sono ridotti ai minimi termini, le sue battute sono memorabili, basti pensare a “Quando un uomo con la pistola incontra un uomo con il fucile, l’uomo con la pistola è un uomo morto” o a “Il mondo si divide in due categorie: chi ha la pistola carica e chi scava. Tu scavi”. La rivoluzione portata da Leone nel mito del West è totale: narrativa, visiva e sonora. Per la prima volta gli spettatori vedono un West realistico, multietnico, sporco, povero, popolato di personaggi eccessivamente violenti. Clint Eastwood, Henry Fonda, Gina Maria Volontè, Eli Wallach, Jason Robards, James Coburn, Lee Van Cleef, Charles Bronson, Rod Steiger e Claudia Cardinale non sono mai stati così luminosi o luciferini come quando recitavano per lui. Con i suoi western Sergio Leone, che si abbeverava a fonti quali Omero e William Shakespeare, è riuscito a creare un nuovo linguaggio cinematografico fondato sulla dilatazione temporale, e l’esplorazione dei limiti dell’inquadratura e del montaggio. Se di lui si può dire che è viscontiano nella ricerca storiografica minuziosa, è assolutamente antiverista per quanto riguarda le scenografie. Sostenuto dal lavoro di Carlo Simi, mescola, con consapevole noncuranza, epoche diverse, creando anacronismi evidenti. Sotto ogni angolazione Sergio Leone è stato un innovatore e, giustamente, è stato detto di lui che ha innestato nel cinema la pop art (così Christopher Frayling che con Gian Luca Farinelli cura il volume “La rivoluzione Sergio Leone”). La mostra all’Ara Pacis fa rivivere il suo mito immergendo il visitatore in una dimensione onirica attraverso oggetti di scena, materiale multimediale e corridoi sonori diventando possibile fonte di nuova ispirazione.

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