“Come figlio di profughi palestinesi cresciuto in Danimarca, questa è stata la mia storia. La Palestina è un mosaico di tante storie e situazioni, in sostanza siamo un popolo in esilio. La mia esperienza è stata quella di concentrarmi su ciò che mi è vicino, e ciò che mi è vicino è l’esilio. Sono grato di non aver vissuto sotto occupazione israeliana e di non essere mai stato umiliato ai checkpoint israeliani ogni giorno; non ho quell’esperienza. Ma so cosa significa vivere in esilio, essere apolide, non appartenere”, così il regista palestinese-danese Mahdi Fleifel in un’intervista rilasciata al critico cinematografico Serge Kaganski sul film “To A Land Unknown” (“Verso una terra sconosciuta”) che arriva nelle sale italiane dal 13 novembre distribuito da Trent Film. Presentato in alcuni festival internazionali, tra cui Cannes e Toronto, ottenendo ben 30 premi in 60 paesi (e attestazioni di stima da parte di personalità come Ken Loach), “To A Land Unknown” è un racconto potente sulla diaspora palestinese. Protagonisti sono Chatila (Mahmood Bakri) e Reda (Aram Sabbah), due cugini palestinesi fuggiti da un campo profughi in Libano e che restano bloccati in Grecia, dove vivono di espedienti, sognando di raggiungere la Germania. Atene si trasforma così in “un deserto urbano che i rifugiati palestinesi cercano di attraversare”. Con “To A Land Unknown”, il regista continua la sua riflessione sul destino dei rifugiati palestinesi inaugurata con il pluripremiato documentario “A World Not Ours” sul campo profughi dei suoi genitori, firmando un film che parla non solo di esilio geografico, ma soprattutto di sradicamento identitario e perdita di umanità. In quest’opera Fleifel mette in scena una storia universale sull’erranza, sulla perdita e sulla resilienza, restituendo dignità e voce ad un’umanità che vive sospesa tra il ricordo della patria e la speranza di un futuro possibile. “To A Land Unknown” arriva forte allo spettatore come una ferita nel cuore.
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